Il velo di Letizia Bonaparte

di Anna Alfieri

Il 13 aprile, in occasione della XIV Settimana della Cultura, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia esporrà – per la prima volta assoluta – due delicati cimeli storici, finora conservati in due buste ingiallite dal tempo, nella cartellina numero 749 del suo archivio.

Si tratta di due piccolissimi lembi di velo chiaro tempestato da minuscole spille d’oro lucente, lavorato a forma di fiocco a tre nodi. Solo pochi centimetri di stoffa impalpabile che, però, fanno battere il cuore, perché una volta appartennero – in vita e in morte – a Letizia Bonaparte madre di Napoleone, ed ora appartengono – per diritto di storia – a Tarquinia. Anzi a Corneto, giacché il corpo della madre dell’uomo che aveva tenuto in pugno l’Europa venne tumulato nella chiesa delle Monache Passioniste, la più segreta e severa della nostra città.

Dopo la sconfitta di Waterloo, Letizia – alla quale era stato impedito di raggiungere il figlio a Sant’Elena – si ritirò a Roma a Palazzo Rinuccini, ora Bonaparte, situato nel preciso punto in cui Piazza Venezia fa angolo con Via del Corso. Un palazzo nel quale la vecchia signora, che in gioventù era stata bella ed altera ma che con il passare degli anni era diventata sempre più piccola e fragile, si spense nel febbraio del 1836. Un anno difficile ed irrequieto in cui, nella grigia Europa della Restaurazione e della Santa Alleanza, cominciava sotterraneamente a riaccendersi il mito di Napoleone che di nuovo infiammava l’animo prerisorgimentale dei patrioti più giovani.

Per questo motivo il Governo Pontificio, che aveva serenamente tollerato la presenza di alcuni Bonaparte a Roma, questa volta, sotto la pressione degli ambasciatori d’Austria e di Francia, negò a Letizia una degna sepoltura in città. Una storica prudenza politica per la quale il feretro di Madame Mére, dopo una frettolosa e guardinga benedizione in Santa Maria di Via Lata, venne deposto su un lugubre carro senza insegne e trasportato nel nostro paese per volontà del cardinale Fesch, fratello della defunta e, quindi, zio dell’Imperatore.

Sul cardinale Fesch si potrebbe scrivere un romanzo perché, dopo essere stato un uomo avventuroso splendido e spavaldo durante gli avventurosi splendidi e spavaldi tempi napoleonici, negli ultimi anni della sua vita era diventato un prelato mistico e meditativo che veniva spesso a Corneto, ospite del Monastero della Passione del quale fu un generoso protettore. Ed a Corneto, per sua espressa volontà testamentaria, volle poi essere sepolto nel 1839, accanto alla sorella.

Torniamo dunque a Madama Letizia. Se l’arrivo del suo corpo a Corneto era stato segreto, notturno, lunare e tenebroso, la partenza del suo feretro per Ajaccio, voluta da Napoleone III, fu assolata, solenne e trionfale. Tutto avvenne precisamente così: il primo luglio del 1851 giunse nella nostra città una delegazione proveniente dalla Corsica, guidata dal Maire di Ajaccio, Dominique Zevaco, e dal suo vice Antoine Morelli. Delegazione che, di dovere, procedette subito alla ricognizione del corpo di Letizia. Fu in questo preciso punto della storia che accadde il “fatto”: con grande sorpresa degli astanti, il corpo della vecchia signora apparve intatto, con il volto severo e affilato incorniciato da una fresca cuffietta di raso chiaro. Chiaro come il raso delle scarpette e della stoffa che ricopriva il suo vestito di velluto nero. Su tutto, dalla testa ai piedi, si stendeva, brillante di centinaia di piccole spille d’oro e ancora soffice e lucente, il velo “di blonda” di cui ho parlato all’inizio. Davanti a questo splendore, racconta Luigi Dasti, “i Còrsi e i Francesi (ed anche qualche nobile cornetano, aggiungo io che ho visto e toccato un lembo di quel velo) fecero ressa per prenderne ciascuno un brano, chi con piccoli coltelli e chi con forbici”.

L’indomani il feretro di Madama Letizia, insieme a quello del fratello Cardinale, venne adagiato tra pesanti drappi di velluto su un carro d’artiglieria francese e processionalmente accompagnato da tutto il Capitolo Cornetano, dai Patrizi della nostra città in marsina ricamata, dalla Delegazione Còrsa e da trenta Dragoni della cavalleria francese in alta uniforme fino a Porta Maddalena. Dove l’arcidiacono don Michele Bruschi Querciola pronunciò un commosso discorso d’addio.

Il giorno successivo, dopo un pontificale solenne nella Cattedrale di Civitavecchia, i feretri vennero portati a braccia da alcuni marinai francesi sulla fregata Vauban in gran pavese, comandata da Maurice Ducampe Rosamel. Più tardi la nave salpò per Ajaccio, mentre i cannoni di Forte Michelangelo sparavano a salve e una compagnia di fanteria di linea, con musiche e bandiere, rendeva gli onori militari al suono della Marsigliese.