Il Guggenheim: l’Avanguardia americana 1945-1980 – Roma vive l’arte contemporanea

di Romina Ramaccini

Un’opportunità come questa, non capita certamente tutti i giorni: la mostra visibile a Palazzo delle Esposizioni fino al 6 maggio del 2012, Il Guggenheim: l’avanguardia americana 1945-1980, è un evento imperdibile e non solo per la fascia del pubblico più vicina a questa arte, bensì per tutti, perché fondamentale per conoscere la nostra cultura, ma soprattutto gli eventi che l’hanno caratterizzata e ciò che ha in gran parte impedito al nostro Paese di continuare la tradizione millenaria dell’arte italiana.

Le sessanta opere in mostra, infatti, appartengono ad artisti stranieri, molti dei quali, sotto il dominio nazista, son stati costretti a fuggire in America per evitare le discriminazioni in atto in Europa. È qui che i collezionisti più all’avanguardia, avendo recepito il loro messaggio rivoluzionario, danno fiducia ai pittori finanziandoli e promuovendoli nell’America che, proprio nel primo dopoguerra, inizia ad evolversi.

Solomon R. Guggenheim può considerarsi il padre di molti pittori che, sotto la sua protezione, operavano e diffondevano il loro pensiero artistico. Di notevole importanza la mostra Art of Tomorrow del 1939, svoltasi all’interno della nuova galleria Guggenheim, Museum of non-objective painting  di New York,  dove  erano presenti  anche lavori di Picasso e Kandinsky.

Un ulteriore ed enorme contributo viene invece dalla più conosciuta Peggy Guggenheim, che assieme  a Lawrence Alloway ed al collezionista italiano, il conte Giuseppe Panza di Biumo, hanno riunito sotto un’unica fondazione opere di inestimabile valore, tra cui, appunto, quelle esposte a Palazzo delle Esposizioni.

La mostra, suddivisa in sette sezioni, presenta al pubblico opere che hanno caratterizzato i singoli movimenti nascenti nell’ America del dopoguerra, andando ad analizzare accuratamente le singole correnti. Nelle prime due sale, pitture di Sebastian Matta (ben conosciuto nel nostro paese e di cui Tarquinia possiede molti capolavori), Tanguy, Calder, Rothko, Still e Pollock, solo per citarne alcuni: artisti stilisticamente diversi ma uniti nel loro pensiero e nel prendere le distanze da quella che era stata l’arte fino a quel momento. Un taglio netto con il passato, un irrefrenabile desiderio di comunicare altro, attraverso un linguaggio non convenzionale. Nel particolare, le opere di Pollock esposte ed eseguite a distanza di anni mostrano il palese cambiamento avvenuto nell’artista statunitense: La donna Luna, eseguita nel 1942, è un’opera ancora figurativa, dove ben si percepiscono  le pennellate che stendono il colore sulla tela. Son campiture estese e la gestualità che caratterizza Pollock ancora non è evidente. Di tutt’altro stile invece l’altra opera esposta del 1946, dove i colori vanno incessantemente sovrapponendosi, anticipando di non molto la nascente tecnica del “dripping”, che si potrà ammirare nelle sale successive attraverso le altre tele esposte. Ancora altro genere, poi, per le opere di Matta e Tanguy, immerse in atmosfere surreali che sembrano richiamare timidamente la corrente artistica francese nata negli anni Venti.

Da qui, gradualmente, cresce il desiderio di comunicazione con la nuova società, di affermazione dei propri principi, tralasciando tutto quello che di consapevole esiste e scrutando il proprio io attraverso una profonda ricerca interiore. La nuova generazione, riunitasi sotto la New York School, prende sì spunto dal surrealismo, dal cubismo e dai murales messicani, ma mette da parte ciò che in queste correnti rappresentava la razionalità. Si esclude l’approccio consapevole a favore del processo creativo, che diviene primo interesse. Nella tela di Rothko, esposta nella seconda sala, prende il sopravvento la spiritualità, che tende ad insediarsi anche in chi si accinge ad ammirare l’opera; nelle tele di de Kooning, invece, analogamente a Pollock, è espressa la propria soggettività attraverso una pronunciata sensibilità esposta, però, con pennellate molto più corpose del padre del “Dripping”. La figurazione è quasi interamente annullata, si scorge solamente nel lavoro di Marca-Relli del 1956, “Il Guerriero”, che tra i molti colori nasconde la sagoma di un uomo in armatura di cui però manca la testa.

La totale astrazione deve attendere gli anni Sessanta per affermarsi ed è questo periodo che viene presentato nella terza sala. Vi è un totale allontanamento dalla New York School, sottolineato dal curatore Alloway che definisce la nuova pittura astratta americana Hard Edge come lontana dalla gestualità precedente ed incline alla ricerca incentrata sui quattro fondamenti della pittura: linea, superficie, colore e forma. Per molti artisti, tutto è ridotto all’essenziale e costituisce il punto di partenza per uno studio che vede l’opera non come circoscritta alla semplice tela, ma viva, e si estende nello spazio circostante facendolo diventare esso stesso parte del quadro. In questo modo la superficie piatta diviene tridimensionale grazie ad un gioco di colori e struttura geometrica che amplifica il tutto.

Di notevole impatto visivo è l’opera posta nella parete di fondo, di grandi dimensioni e con colori fluorescenti. L’accurata perfezione geometrica permette di ricostruire attorno il proseguo dell’opera che va perfettamente armonizzandosi con le architetture. Harran II, di Frank Stella, è davvero una composizione che lascia senza fiato. Ma, come questa, di forte impatto sono anche le opere di Kelly, Louis e Noland esposte nella stessa sala. Ogni artista elabora il rapporto del quadro con lo spazio circostante in un diverso modo, fino alla tecnica “Soak Stain” (termine coniato da Morris-Luis, per descrivere le sue “macchie per assorbimento”) consistente nel versare il colore molto diluito nella tela e farlo poi scivolare lungo la superficie dall’alto verso il basso fino ad intriderla. Con la Pop Art, di nuovo un ritorno alla figurazione, un rifiuto del gesto spontaneo attraverso l’imitazione di immagini di repertorio della cultura popolare americana, tratte dai quotidiani, dalla televisione, dalle pubblicità e così via. Si sperimentano nuove tecniche di esecuzione come la serigrafia e tecniche ad imitazione dei metodi industriali. Si ironizza sulla cultura del consumo che si è andata ad affermare in America negli anni Sessanta e si critica la superficialità che prende sempre più il sopravvento.

Nella quarta sala tutto ciò è sintetizzato nelle grandi tele di Warhol, Lichtenstein, Rauschenberg e Rosenquist. Nonostante il movimento abbia avuto vita breve, anche negli anni successivi si continuerà a commentare la cultura contemporanea ed anche oggi, molte delle immagini che vediamo, ripropongono questo mezzo di comunicazione.

Contemporaneo all’ironia Pop, il minimalismo si distacca con tutto ciò che l’ha preceduto. Le opere si riducono all’essenziale e quello che interessa è l’approccio dello spettatore verso quell’oggetto che si allontana dall’idea di manufatto artistico conosciuta fino a quel momento. L’artista addirittura interviene il meno possibile sul lavoro, eseguito il più delle volte attraverso l’ausilio della produzione industriale.

Nella quinta sala predominano forme geometriche elementari, che si ripetono nello spazio. È di Judd, artista minimalista per antonomasia, l’opera eseguita nel 1970, che ripropone, a suo modo, la sequenza matematica di Fibonacci (successione di numeri interi dove ciascun numero è il risultato dei due precedenti, 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13 e così via) attraverso parallelepipedi rettangoli che si susseguono accrescendosi di dimensioni. In sostanza, la lunghezza del rettangolo finale equivale alla somma della lunghezza tra gli ultimi due parallelepipedi. È come giocare con i numeri in colore, con la differenza che qui l’unica tonalità che si ripete è quella del viola che contrasta nettamente con il sostegno color grigio chiaro.

Non solo scultura, ma anche pittura minimalista. Fiore bianco di Martin propone la ripetizione lungo tutta la tela di rettangoli, all’interno dei quali piccole pennellate bianche alludono ai molti petali presenti nell’opera. È una continua ricerca che non va esaurendosi con gli anni. Ecco quindi che anche il minimalismo viene messo in discussione, allo stesso modo del manufatto artistico che inizia ad essere visto non più come oggetto eterno, bensì come qualcosa di puramente ideale che non ha bisogno di concretizzarsi. Ciò che avviene è una critica implicita all’istituzione museale, vista come mero contenitore muto di oggetti.

E’ anche il tempo a farla da padrone: le opere di Template, usufruiscono della forza di gravità per nascere e solo grazie a questa esistono. Ma non è tutto. Nauman, enfatizzando al massimo il concetto temporale, concepisce una vera e propria performance teatrale: lo stesso spettatore, camminando nell’opera, concluderà quest’ultima attraverso il suo contributo, consistente nell’attraversare uno stretto corridoio dove una telecamera riprende e registra la “passeggiata” visibile anche a chi la sta compiendo. È un’opera che varia in ogni occasione, proprio grazie a questa interattività.

Oramai la concezione estetica è passata completamente in secondo piano ed il risultato che interessa verte tutto sulla percezione e la reazione di chi guarda. L’oggetto d’arte non è più un esemplare unico e non si basa più sull’immagine: è il linguaggio che ora fa l’opera. L’arte concettuale comunica attraverso le parole che esprimono, appunto, un “concetto”. Che non deve materializzarsi più esclusivamente su una tela, ma va ad occupare gli spazi architettonici, come quello visibile nella rotonda a Palazzo delle Esposizioni, dove l’artista Weiner sintetizza attraverso piccole frasi i processi materiali e le condizioni ambientali, lasciando però ai singoli la facoltà di immaginare le azioni a cui ci si riferisce.

L’esposizione si conclude con il movimento del Fotorealismo, sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Settanta e caratterizzato dall’uso della fotografia come mezzo di registrazione, per poi usufruirne per creare opere minuziosamente fedeli allo scatto effettuato. Analogamente alla Pop Art, le immagini che si prediligono vengono reperite dalla cultura di massa, ma se ne differenziano per la completa mancanza del  messaggio denigratorio ed ironico, presente invece nelle opere di Warhol.

Al termine della mostra sarà impossibile non essere soddisfatti del viaggio appena concluso.  Attraverso le sessanta opere esposte ed oggi conservate al Guggenheim Museum di New York i curatori son riusciti perfettamente nell’intento di presentare sinteticamente gli eventi che ci hanno condotto al nostro essere, quelli che troppo spesso dimentichiamo e le opere che troppo poco conosciamo.

Nonostante oggi si cerchi il più possibile di rendere fruibile a tutti l’arte contemporanea, tendiamo ad allontanarci da questa perché ai nostri occhi spesso appare “non bella” e senza alcun senso. Tutto ciò che ci ha preceduti ha un senso e tutto quello che noi vediamo ha un pensiero che l’ha creato. Il reputare negativamente qualcosa che non riusciamo a comprendere, a mio modesto parere, è semplicemente un modo per confermare quanto oggi la superficialità stia prendendo il sopravvento e quanto tendiamo a rinnegare il progresso che ci ha condotti dove siamo.