Tarquinia e i quattro inglesi con un libro in tasca

David_Herbert_Lawrence_1di Anna Alfieri

Etrusca

L’etrusca danzante, da un lucido di Carlo Ruspi (1786-1863)

Nella tarda primavera del 1842, quasi in pellegrinaggio, giunse a Tarquinia, che allora si chiamava Corneto, il Console britannico George Dennis (1814-1898), viaggiatore instancabile e vibrante archeologo. Il quale, prima di intraprendere quel viaggio per lui definitivo e favoloso, aveva già raccolto dai classici greci e latini, dai grammatici del Medioevo, dai settecenteschi frugatori di tombe e dai mercanti antiquari dell’Ottocento tutte le notizie che direttamente o indirettamente riguardavano il mondo etrusco della nostra città. Ciò nonostante, quando realmente si immerse in Tarquinia, luogo sacro della sua mitologia interiore, rimase abbagliato.

Abbagliato dal volo antico degli uccelli nel  cielo azzurrissimo, dai campi morbidi ed erbosi nei quali si aprivano le bocche dei sepolcri dipinti e dal pulviscolo di macco dorato che tutto includeva. Abbagliato, soprattutto, dalla forza selvaggia del nostro paesaggio, che “raccoglieva in sé ogni segno della storia, come se rocce, vegetazione, rovine antiche e abituri moderni, subendo l’usura del tempo, fossero venuti a raccogliersi a poco a poco nel grembo della natura. Talché non si sapeva più se questa o quella pietra fosse stata sollevata dai costruttori moderni, dagli uomini dell’età di mezzo, dai mitici Titani o da Dio”. Sull’onda di questa esaltazione, il Console Dennis scrisse un libro che sarebbe diventato famoso: The Cities and Cemeteries of Etruria (Città e necropoli etrusche), che piacque molto agli inglesi, la cui passione archeologica si spostò dalle gelide aule dei musei neoclassici agli spazi aperti delle nostre terre assolate e si trasformò in avventura romantica, colta e curiosa, appena spruzzata di humour.

Fu così che, portando con sé il libro di Dennis, nel 1923 giunse a Tarquinia, alla ricerca di un magico tempo perduto, un altro inglese speciale: Aldous Leonard Huxley (1894-1963), un intellettuale di rango, ancora huxleyoggi considerato un leader indiscusso del pensiero moderno. E,  anche lui, come Dennis, dopo aver visitato Tarquinia scrisse un romanzo: Those barren leaves (Foglie secche), il cui protagonista, Cardan, in fuga da un mondo in cui il progresso aveva annientato ogni senso di civiltà spirituale, ritrovò tra gli Etruschi l’antica innocenza del tempo passato: “un mondo felice di una sua felicità naturale, non ancora imbrigliata dalla ragione e dalla morale che hanno prodotto l’infelicità del genere umano”. Nel brano più emblematico del libro, Huxley collocò i suoi personaggi in una tomba di Tarquinia che nella realtà non esiste ma che, per un gioco  della sua fantasia, riassumeva in sé tutte le immagini “traslucenti e carnose” della nostra necropoli. “Qui – concluse l’autore – gli Etruschi furono felici perché conoscevano il segreto del vivere armonioso e completo con tutto il loro essere. Invece il Cristianesimo ci ha imbarbarito nell’anima e ora la scienza ci sta imbarbarendo nell’intelletto”. Del resto, qui “rise” l’Etrusco guardando la marina. Così avrebbe detto più tardi anche Vincenzo Cardarelli che inglese davvero non era.

Lawrence a Tarquinia, acquerello di Brian Mobbs

Lawrence a Tarquinia, acquerello di Brian Mobbs

Quando nell’aprile del 1927 giunse a Tarquinia, David Herbert Lawrence, scrittore britannico sensitivo e sensuale, portava con sé, anche lui, un libro fatato, cioè il romanzo ancora in forma di manoscritto del suo amico Huxley. Di Tarquinia, “cittadina di pietra dove le ere si accavallano” Lawrence assorbì subito “la quiete di quelle calde giornate e la vergine essenza della campagna splendente di verde primaverile”. Poi, attraversando i campi “pieni di anemoni color malva, di chiazze di verbena, ciuffi di camomilla e grappoli di giacinti azzurri” scese nelle tombe. Qui le scene dipinte gli apparvero “naturali come la vita stessa in una purezza di significati densa ed arcaica”. Qui “i personaggi avanzavano con i lunghi piedi calzati di sandali tra piccoli ulivi, muovendosi veloci e pieni di brio fino alla punta delle dita”. E qui a lui l’universo tarquiniese sembrò “vivo e vibrante, come un’unica grande creatura che fremeva tutta”. “Qui – scrisse Lawrence – il cielo inspirava l’etrusco nel suo azzurro, lo inalava, lo assorbiva e lo trasformava prima di effonderlo ancora. Qui c’erano le fiamme dentro la terra”. E come avevano già fatto Dennis e Huxley, anche Lawrence scrisse un libro: Etruscan Places (Paesi Etruschi), forse il più bello di tutti.

Il londinese Brian Mobbs, pittore (biondo era e bello e di gentile aspetto), giunse per la prima volta nella nostra città alla fine degli anni ’50 e anche lui, da buon viaggiatore inglese, aveva con sé un utile libro da leggere, quello di Lawrence. Un libro che, avvicinandosi in treno alla nostra città, leggeva e rileggeva rigo

Brian Mobbs, foto di Guido Sabbatini

Brian Mobbs, foto di Guido Sabbatini

per rigo interrompendosi solo per guardare il paesaggio che gli scorreva davanti agli occhi. “Da Civitavecchia – scriveva infatti Lawrence – Tarquinia è la stazione successiva. Una ventina di chilometri attraverso la campagna pianeggiante della Maremma, con il mare sulla sinistra e a destra il grano verde che cresce orgoglioso e l’asfodelo che protende i suoi steli appuntiti”. “Presto – continuava lo scrittore – scorgemmo Tarquinia con le sue torri svettanti come antenne su un basso promontorio roccioso a pochi chilometri dall’entroterra”. A questo punto, come Lawrence aveva già fatto prima di lui, Mobbs, scese dal treno e salì su un autobus blu e color crema. “Dalla stazione l’autobus fa presto ad andare su – continuava infatti Lawrence –, s’infila in volata nella porta, fa una rapida giravolta nella piazza e si blocca in uno spiazzo scarno che sembrava senza pretese. Ma a destra c’è un caffè sopra i bastioni e a sinistra un palazzo di pietra, una costruzione incantevole che ora è Museo Nazionale.

Qui i due inglesi, uguali e diversi ma cronologicamente asimmetrici, si separarono. Nel ’27 Lawrence, dopo aver girovagato qua e là fiutando cose antiche nell’aria, s’infilò in Via Umberto I per raggiungere la locanda di Gentili in via Cesare Battisti. Invece, negli anni ’50, Mobbs risalì il Corso, poi voltò a destra alla ricerca di Isauro Pontani che in via Garibaldi aveva una casa e un giardino con un campetto di bocce, proprio lì dove ora sorge una banca. Pochi giorni dopo, Lawrence ripartì vagheggiando un nuovo viaggio a Tarquinia, un savage pilgrimage, un pellegrinaggio selvaggio per “etruschizzasi un po’”. Mobbs invece, risucchiato dal sole grande della Maremma, rimase per sempre con noi.

Ora possiamo incontrarlo in piazza d’Erba dove, nel cuore turrito della nostra città, si apre il suo studio. Per lui la Maremma è un giardino che richiama l’Unico Giardino, quello dell’Eden perduto. Perciò i fili d’erba, le spighe, i cardi, i boschi, i fiori, le luci, le ombre, le acque, short hands, nei suoi quadri sono in realtà nostalgie. Meditazioni su quel tempo fatato d’inizio vagheggiato da Dennis, Huxley e Lawrence, tempo immacolato in cui, lontani da questo secolo devastante e irrequieto, anche noi, come gli Etruschi eravamo natura.