Quando Luciano Marziano giunse a Tarquinia

di Anna Alfieri

230576_1882862804801_4899001_nEra un’azzurra mattina d’estate quando – seduta al tavolo esterno di un bar dove stavo leggendo il giornale sbirciando passanti e turisti – vidi entrare a Tarquinia, dall’ingresso grande della Barriera di San Giusto, un uomo vestito di lino chiaro che si guardava intorno con aria felice. Un signore lindo ed elegante che, anche lui un po’ azzurrino per via del colore cangiante dei suoi occhi celesti, mi salutò con un piccolo cenno della testa sollevando il suo bel panama bianco e scivolò via in silenzio.

Un silenzio che si sciolse pochi giorni più tardi in una casuale conversazione su Andrea Camilleri, scrittore meridionale che a me piaceva e a lui, al passante misterioso, no. Quel passante in panama bianco che aveva osato contraddirmi era Luciano Marziano, apprezzato storico e critico d’arte, un intellettuale dal pensiero lucido, una colonna della cultura italiana. In più, era nato a Comiso nel cuore della Sicilia ‘babba’ e barocca, perciò, nell’argomentare su Camilleri risultò assai più preparato e preciso di me e mi sopraffece senza pietà. Siccome era, però, anche un divulgatore di cultura generoso e quasi compulsivo, mi raccontò subito di alcuni suoi concittadini famosi, come Gesualdo Bufalino scrittore, Nino Caruso ceramista e Salvatore Fiume pittore di successo, ma, a suo modo di vedere, un po’ superficiale e perfino troppo alla moda. Tuttavia, all’improvviso e quasi per magia, fece uscire dal pacco di giornali appena comprati un romanzo autobiografico scritto proprio da Fiume, intitolato – lo ricordo benissimo – W Gioconda! Era un volumetto tascabile già usato di cui mi consigliò la lettura, specificando che, pur non essendo un capolavoro, era tuttavia un testo così lieve e facile da poter introdurre perfino me, in modo elementare ed indolore, ai misteri della Sicilia. Anzi, ai misteri della ‘sicilitudine’ che, come diceva Sciascia, erano cosa delicata e complessa. Nacque così una delle più preziose e fertili amicizie della mia vita.

In quegli stessi giorni prendeva forma e sostanza anche l’amore definitivo di Luciano per Tarquinia, luogo in cui, dopo un lungo soggiorno a Roma, aveva scelto di vivere. Una città stimolante che, nel periodo delle nostre prime conversazioni, lui stava felicemente perlustrando casa per casa,  torre per torre, chiesa per chiesa, abitante per abitante. Me compresa, che leggevo i giornali al Caffè.

I suoi rapporti diretti con i tarquiniesi più sensibili si concretizzarono alcuni mesi più tardi presso la Società Tarquiniense d’Arte e Storia, un sodalizio culturale di cui nel frattempo era diventato un socio attivissimo e ormai indispensabile. Tutto cominciò nel 1996 con i Giovedì dell’Arte, un ciclo di conversazioni sulla pittura in cui – maglioncino di cashmere, sciarpe di lieti colori e piccoli occhiali rotondi dalla montatura dorata – ci sedusse, ci meravigliò, ci insegnò a guardare le cose con occhi più arditi e destabilizzò il nostro provincialismo culturale ormai un po’ impolverato. Una volta, I remember, ci stupì dimostrando – diapositive proiettate alla grande sul muro – che Raffaello, nel dipingere il rosso complicato della mozzetta di Papa Leone X nel suo celebre quadro, era stato un inconsapevole precursore dell’astrattismo.

Un’altra volta, invece, ci paralizzò disquisendo finemente sul seno femminile nell’arte antica e moderna, iniziando dal petto floridissimo della Dea dei Serpenti di Cnosso, per giungere – attraverso quello metaforico e simbolico della Libertà che guida il popolo di Delacroix e quello cubista delle Demoiselles d’Avignon di Picasso – al busto birichino e assai provocante, per di più enfatizzato dai dettagli delle diapositive, della Signora con il cappellino rosso di Ernst Ludwig Kirchner, padre dell’Espressionismo tedesco. Ma la cosa che più ci tramortì, polverizzando in un solo attimo fatale ogni nostra radicata certezza, fu l’affermazione che il graffitismo urbano dei writers, da noi considerati solo molesti imbrattatori di muri perseguibili per legge, sarebbe presto diventato una nuova forma di arte contemporanea che prima o poi avremmo dovuto prendere in seria considerazione. Perché Luciano era proprio così: colto, suadente, affabulatore, perfino un po’ vanitoso, ma propositivo, rigenerante e testardo.

Tale fu anche nei confronti della ceramica. All’inizio si limitò ad osservare, accarezzare e soppesare le ceramiche etrusche, attiche e corinzie del Museo Nazionale e quelle medievali provenienti dai butti cornetani conservate nel Museo della S.T.A.S. Successivamente si divertì a catalogare con occhi critici e sornioni, quasi per un gioco della mente da fare insieme agli amici, le ceramiche antiche vere che sembravano false, quelle false che sembravano vere e quelle che non sembravano né vere, né false, ma che per qualche strano incantesimo, apparivano, forse, le più belle di tutte. Insomma, si innamorò perdutamente anche delle opere emozionanti, duttili e fantasiose dei maestri ceramisti contemporanei. Allora scovò, strada per strada, laboratorio per laboratorio, tutti gli artisti di gusto raffinato e poetico che sapevano bene come trattare l’argilla. Li capì, li amò, li rivelò a loro stessi, li incoraggiò, qualche volta li irritò, e li fece conoscere al mondo. Infine, nel luglio del 1998, li riunì nel chiostro di un convento agostiniano di Tarquinia dove, armati di lunghe tenaglie di ferro rovente, anneriti dal fumo, grondanti di sudore tra i fuochi e le scintille dei forni di cottura e i vapori dell’acqua di raffreddamento, mostrarono agli spettatori attenti ed emozionati venuti da ogni dove, il miracolo della ceramica Raku. E, quello, fu solo l’inizio.

Nel marzo del 2016, dopo aver trovato la forza, il tempo e le circostanze conviviali per salutare con grazia affettuosa ogni suo amico senza far capire che quel saluto era l’ultimo, Luciano Marziano ci ha lasciati spaesati e storditi ed è uscito di scena con il passo lieve, e spero sereno, di quando lo vidi per la prima volta entrare con aria felice a Tarquinia dall’accesso grande della Barriera di San Giusto. Eppure, in certe mattinate azzurre di quell’azzurro speciale e cangiante che ci ricorda i suoi occhi – per quanto ciò possa sembrare strano anche a me – io lo sento ancora insieme a noi, felice di indicarci i nuovi sentieri dell’arte e del bello, da percorrere con occhi freschi e lucenti per non finire, in sua assenza, ancora una volta in letargo.