“Nel nome di Corneto”

Proponiamo, oggi, questo al solito brillante contributo di Anna Alfieri, già pubblicato in veste cartacea su L’extra qualche anno fa.

“Dopo l’unione degli altri stati d’Italia in un solo regno, essendo Corneto omonimo di altri comuni, si dovette per legge aggiungere una parola alla sua antica denominazione e il Regio Governo Italiano, con Decreto del 10 settembre 1872, autorizzò la locale proposta di chiamarlo “Corneto Tarquinia”.

Con queste semplici e precise parole, Luigi Dasti – allora sindaco della città – comunicò come, a conclusione del Risorgimento, il nome di Corneto avesse perso la sua unicità identificativa e come ai cornetani fosse stato concesso il privilegio di proporre le parole aggiuntive che avrebbero meglio distinto il loro paese dagli altri Corneto o Cornedo sparsi qua e là nella penisola. Accadde così che i nostri progenitori, liberi di sbizzarrirsi suggerendo Corneto dei Vitelleschi, o Corneto Turrito, oppure Corneto sul Tirreno e perfino Corneto dei Cornioli, scelsero sobriamente di legare il ruvido nome della loro città medievale a quello regale della antichissima Tarquinia etrusca.

Se, però, nel 1872 il cambiamento era stato imposto dall’alto in seguito ad uno storico riassetto geopolitico, nel 1922, cinquant’anni più tardi, il nome di Corneto venne cancellato per sempre dalla carta geografica, senza altro apparente motivo che l’unanime e fermissima volontà popolare. Tutto era iniziato casualmente otto anni prima, cioè nel marzo del 1914, quando un forestiero, giunto nella nostra città per inaugurare una Associazione culturale, tra una bicchierata e l’altra osò dire esplicitamente ciò che i nostri compaesani non avrebbero mai voluto pubblicamente ascoltare e, rompendo ogni tabù, affermò che da secoli “l’infelice nome di Corneto, richiamando le corna coniugali (sic), proiettava sulla graziosa cittadina maremmana un incombente riflesso di ridicolo”. Poi, tutt’altro che scoraggiato dallo sgomento provocato negli astanti, fece ancora di più: prese carta e penna e, nascondendosi dietro l’impenetrabile pseudonimo di Tir, sparse sulle popolarissime pagine de “La Tribuna”, il settimanale allora più letto dagli italiani, l’orribile notizia che Corneto Cornuto, già dai tempi di Boccaccio, era universalmente considerato un paese di donne leggere e che ovunque – storpiando il nome dantesco di Rinieri da Corneto – si rideva delle disavventure di un certo Cornieri da Corneto, assai sfortunato in amore.

In questo spietato modo i bravi abitanti del luogo diffamato, aprendo tranquillamente il loro giornale preferito, in una bella mattina di primavera appresero a mezzo stampa che non vivevano, come sempre avevano voluto credere in una ispida selva di duri cornioli ma, come forse segretamente già sospettavano, in una fitta selva di corna bovine.

A loro difesa, cioè a difesa dei costernati cornetani, si alzò immediatamente l’autorevole voce di un altro forestiero, il giurista di chiara fama Carlo Calisse, illustre storico del territorio, allora Deputato del Collegio di Civitavecchia e futuro Senatore del Regno, il quale – intervenendo con sdegno sulle pagine de “La Tribuna” in risposta all’irrefrenabile Tir – scrisse che “era un delitto scherzare con il nobile nome di una città che aveva dato i natali ad un uomo celebre come il Cardinal da Corneto”. Purtroppo, quello di citare un Cardinale di Santa Romana Chiesa, fu un fatale errore di comunicazione, perché il diabolico Tir, ormai devastante come un fiume in piena, incalzò: “Gli sforzi dell’amico Calisse di voler conservare a tutti i costi il cornuto nome della simpatica cittadina sono patetici, perché solo un Cardinale che non aveva moglie poteva osare chiamarsi da Corneto senza arrossire”. Poi, girando il coltello nella piaga, proclamò urbi et orbi: “E se poche persone conoscono in realtà l’importanza storica di questo impavido nonché celibe Cardinale, tutti pubblicamente ridono per la proverbiale sorte di un tale che, sposando una donna molto più giovane di lui, credette di andare a Roma e andò a Corneto”. Solo lo scoppio della Grande Guerra pose fine a questa mortificante polemica giornalistica, ma non appena la vittoria sciolse le ali al vento, i nostri concittadini ricominciarono ad agitarsi.

Erano, quelli del dopoguerra, tempi instabili e violenti: tempi di odi reciproci e di scioperi; di occupazioni di fabbriche e di terre, di agguati, di intimidazioni e di bastonate. Tempi di pubbliche pistolettate che, dietro l’arco del Comune, provocarono perfino la morte di un Commissario di Polizia accorso da Civitavecchia a sedare i tumulti. Ciò nonostante, tutti – fascisti, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani, anarchici, clericali, ricchi, poveri, colti o incolti, giovani e vecchi – si trovarono d’accordo nel voler cancellare per sempre dalla loro vita, dalla loro memoria e dalla loro reputazione l’imbarazzo di sentirsi beffardamente definire Cornetani.

L’ideologo di questo imponente movimento trasversale fu un noto intellettuale nostrano, l’avvocato Latino Latini, autore, tra l’altro, di una monografia intitolata: “Sulla convenienza di denominare la città di Corneto-Tarquinia col solo nome di Tarquinia”. Opera da tutti ritenuta pregevolissima, contro la quale si levò solo la flebile voce di Angelo Falzacappa, ex sindaco della città e umorale poeta che, novello Don Chisciotte, scrisse in un pallido libretto che, corna o non corna, la cornetana denominazione della nostra città doveva considerarsi sacra ed inviolabile, perché immortalata da Dante Alighieri in persona nel canto XIII dell’Inferno.

“Sofistici e capziosi florilegi letterari neppure degni di rilievo”, tuonò testualmente il 16 marzo 1921 dai banchi del Consiglio Comunale l’avventuroso sindaco GiuseppeParpagnoli, mancato bersaglio del proiettile che nel ’19 aveva ucciso per sbaglio il povero Commissario Roselli dietro l’arco di piazza. Battagliero sindaco Parpagnoli che, come verbalizzato con maniacale precisione dal Segretario comunale Giuseppe Vespi, così continuò: “Sono lieto che gli Istituti, gli Enti locali e le personalità spiccate, senza distinzione di partito, si siano autorevolmente affermati a favore del solo nome di Tarquinia e ritengo degne di incoraggiamento tutte le agitazioni popolari messe in opera per il raggiungimento di questo nobilissimo scopo. Invito, pertanto, il Consiglio ad approvare la richiesta di cambiamento, per la maggiore gloria della nostra laboriosa cittadina”. Il Consiglio, “facendo plauso alla proposta”, ad unanimità approvò.

Iniziò così l’iter burocratico che si concluse il 23 aprile 1922 quando, “vista l’istanza in data 25 maggio 1921 con la qualeil Sindacodi Corneto Tarquinia chiede il cambiamento della denominazione del Comune in quello di “Tarquinia” perché più rispondente alla sua tradizione storica; vista la nota n. 265389 con la quale il Ministero delle Poste e Telegrafi dichiara che nulla osta all’invocato provvedimento”, Vittorio Emanuele III Re d’Italia e Luigi Facta Presidente del Consiglio, dopo mille anni di storia nostra gloriosa e battagliera, decretarono ufficialmente la morte per eutanasia del nome bello e guerresco dell’altero Corneto che svanì per sempre nel nulla.

E dire che Vincenzo Cardarelli, poeta sublime, amava la vecchia denominazione del suo selvatico paese natale e a quanti a Roma osavano dargli maliziosamente del cornetano, cornetanamente rispondeva: “Per avere un bel paio di corna non è necessario essere nato a Corneto; ché da noi le corna fanno così poca paura che si tengono per ornamento sopra i credenzoni”.