Le cravatte di Aldo Morelli: un ricordo a firma di Anna Alfieri

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di Anna Alfieri

Ho conosciuto Aldo Morelli nei primi anni ’70 quando era un giovane uomo dalla pelle chiara e dai capelli folti e le sopracciglia nerissime. Elegante, fascinoso e gentile come Marcello Mastroianni che in quel tempo era il simAldo_Morelli_1bolo positivo dell’Italian Style nel mondo. Tempi in cui Aldo – che io, però, chiamavo sempre e solo ‘Morelli’ – svolgeva la funzione di segretario della scuola elementare di Montalto nella quale insegnavo e che da Tarquinia raggiungevo quotidianamente con la macchina guidata da mio padre, Direttore pendolare del Banco di Santo Spirito locale. Il quale, mio padre, credeva fortemente all’etico dovere di arrivare in grande anticipo sul luogo del lavoro e per questo sacro motivo ogni mattina mi scaricava senza pietà, qualunque tempo facesse, davanti all’edificio scolastico ancora deserto. Nessuno può immaginare quanto sia triste una scuola senza bambini. Perciò, per non immalinconirmi al freddo, mi rifugiavo nella segreteria calduccia dove trovavo Morelli che, ancora più mattiniero di mio padre e di me messi insieme, già stava tranquillamente leggendo il giornale.

Nell’entrare, per incominciare sicuramente bene la giornata, gettavo un’occhiata veloce alla sua cravatta. Sì, perché le cravatte di Morelli erano un mito, quasi un oggetto di culto per le insegnanti giovani e ardite. Cravatte pregiate, dono raffinato e impeccabile di una certa bella signora, la quale – si mormorava in paese – era innamorata di lui e da lui ricambiata. Una passionale signora capace di essere gelosa perfino di me, ragazza forestiera e, quindi, secondo lei, assai tentatrice.

Aldo_Morelli_3Non sapeva però, la bella signora bruna, che Morelli ed io ci davamo sempre del Lei e ci tenevamo a serena e innocente distanza, occupati entrambi in altre complicate e divergenti storie sentimentali che lasciavano poco spazio a ogni tipo di romanticismo reciproco o ad altro.

Ciò nonostante, con Morelli andavo realmente d’accordo perché ci capivamo con poco: nei piccoli momenti a nostra disposizione commentavamo le notizie del giornale, ci scambiavamo qualche semplice informazione sulle nostre rispettive famiglie e discutevamo di politica. Fu infatti proprio Aldo Morelli il primo a parlarmi, con tutta la passione che lo distingueva, di Don Lorenzo Milani, il prete-insegnante scomodo e rivoluzionario della scuola di Barbiana al Mugello, sua figura di riferimento pedagogico e morale. Sì, Don Milani di cui Aldo ricalcava laicamente le orme in modo consapevole e concreto mettendosi a totale disposizione di tutti quelli che,Aldo_Morelli_4 a Montalto, avevano bisogno di un aiuto scolastico. “Perché – mi ripeteva spesso parafrasando le parole del sacerdote toscano – ogni insegnamento negato è un ulteriore calcio nel sedere che la vita sferra a chi è povero”. Quando parlavamo di queste cose, il tempo volava e tutto finiva con il suono della campanella d’inizio lezioni.

In seguito al mio trasferimento, Morelli e io non c’incontrammo più per anni e anni, come se Tarquinia e Montalto fossero separati tra loro da mille chilometri di strada accidentata. Quando finalmente lo rividi, era già così malato che mi sembrò un estraneo. Aveva i capelli lunghi e bianchissimi, il volto cereo, la pelle fragile come un velo di seta e lo sguardo ‘alto’ di un veggente affabulatore. E – soprattutto – non portava la cravatta! Indossava invece due maglioni sovrapposti, un giaccone verde, una bella sciarpa e un cappello a larghe falde un po’ brigantesco. Inoltre, cosa che colpì particolarmente la mia immaginazione, ostentava un bastone di IMG_3062crognolo impugnato come lo scettro di un re arcaico e pastorale. Del resto, nemmeno io ero più la mattiniera e fresca ragazza che lui aveva conosciuto tanto tempo prima. Perciò, quando gli chiesi che fine avessero fatto le sue belle cravatte, mi rispose – forse per provocazione, forse per scherzo, forse per esorcizzare i ricordi, o forse semplicemente perché ciò era la verità – che le aveva usate per farsi confezionare un gilet variopinto.

Poco tempo dopo, al suo funerale, tra tanta folla a me ormai sconosciuta e tra tanti discorsi a me estranei, mi sentii spaesata, ‘asimmetrica’. Perché mentre tutti commemoravano in Morelli un personaggio carismatico anche se controverso ormai entrato nell’immaginario collettivo montaltese come un’icona, io, e solo io, salutavo in lui l’uomo bruno, bello, elegante e gentile che era piaciuto tanto alle donne e perciò un pochino anche a me.